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Imparare a leggere le etichette del cibo per cani e gatti. I Componenti analitici

imparare a leggere le etichette

Nei due articoli precedenti a questo ho parlato di quale sia il cibo più sano per cani e gatti e di come, nell’ottica di imparare a leggere le etichette del cibo commerciale, analizzare la sezione dedicata alla “Composizione, vale a dire la lista degli ingredienti presenti nel prodotto.

In questo articolo continuo spiegandoti come va analizzata la sezione dedicata ai “Componenti Analitici“.

Imparare a leggere le etichette. I Componenti Analitici

Nella sezione dei “Componenti Analitici“, che segue quella della “Composizione“, compaiono dei valori che sono il risultato di un’analisi chimica standardizzata prevista per legge sul prodotto finito.

In questa sezione troviamo elencate le “Proteine grezze“, i “Grassi grezzi“, le “Ceneri grezze“, la “Fibra grezza” e l'”Umidità“. A volte compaiono anche altre voci, ma queste sono quelle principali e che più di altre possono aiutare nella comprensione del prodotto.

Non sono altro che quantità espresse in percentuali che, per assumere un significato reale ed essere di aiuto nella valutazione di un cibo industriale, devono necessariamente essere messe in relazione agli ingredienti presenti nella “Composizione“.

Questi dati infatti presi in esame da soli non consentono di valutare la qualità del prodotto rispetto alle esigenze del nostro animale, perché non danno nessuna informazione sulla provenienza e sulla qualità delle materie prime.

Volendo fare un esempio estremo, ma molto efficace, una suola di scarpa in cuoio o una borsetta di pelle se analizzate risulterebbero contenere circa il 24% di “proteine grezze“, che è il valore medio dei prodotti secchi in commercio, ma concorderai che una suola di scarpa in cuoio o una borsetta in pelle benché siano ricche di proteine non solo non sono digeribili, ma non sono nemmeno appropriate nutrizionalmente.

Imparare a leggere le etichette: le “Proteine grezze”

La voce delle “Proteine grezze” (o gregge) è la prima che viene presa in considerazione come parametro per valutare la qualità di un prodotto.

Per misurare la percentuale proteica in un cibo si misura la presenza di azoto, dunque la percentuale delle “Proteine grezze” riportata in etichetta indica semplicemente quanto azoto è presente nel cibo in questione. L’azoto è infatti l’elemento chimico che distingue la molecola delle proteine da quelle dei carboidrati o dei grassi e, in teoria, più è alto il valore di azoto più proteine dovrebbero essere presenti nel prodotto.

Uso il condizionale perché se si pensa allo scandalo del 2007 della melamina nel pet food, la correlazione tra azoto e presenza di proteine nobili non è così scontata.

Nel 2007 un’epidemia di morti sospette di cani e gatti in tutti gli Stati Uniti spinse diciassette tra i venti marchi più famosi – tutti clienti della canadese Menu Food Trust Incorporated, che produceva per loro conto gli alimenti per cani e gatti – a ritirare quintali di prodotti dal commercio. Dopo numerosi test e ricerche gli ingredienti colpevoli furono individuati nella melamina e nel suo sottoprodotto acido cianurico, contenuti in grandi quantità nel glutine di grano che a sua volta la Menu Food acquistava da un fornitore cinese.

La melamina è una sostanza chimica che unita alla formaldeide viene usata per produrre la plastica rigida; l’acqua di scarto che risulta dal processo di produzione contiene melamina e alcuni sottoprodotti, tra cui l’acido cianurico. Questi due elementi ricchissimi di azoto venivano aggiunti, attraverso il glutine di grano adulterato, al cibo per animali che la Menu Food produceva per conto dei 17 grandi marchi del petfood.

Essendo ricche fonti non proteiche (perché non sono amminoaicidi, cioè gli elementi che costituiscono le proteine) di azoto, risultavano essere un ingrediente estremamente economico per fare sembrare molto ricco in proteine un cibo in realtà molto scadente e povero di proteine animali, ed anche letale, perché melamina e acido cianurico combinati insieme formano dei cristalli nei reni che ne compromettono totalmente la funzionalità.

Quanto accaduto nel 2007 dimostra palesemente quanto poco valga un puro valore numerico che non dà nessuna informazione riguardo la provenienza e la qualità degli ingredienti usati, e questo è un principio fondamentale che vale per tutte le voci elencate nei “Componenti analitici“.

Imparare a leggere le etichette: i “Grassi grezzi

I grassi grezzi indicano la quantità dei lipidi (oli vegetali e animali) presenti nell’alimento. È un dato sicuramente importante nella valutazione di un prodotto, ma prima di rilevarne la quantità è bene osservare di che grassi si tratta.

Potrebbero essere olio extravergine di oliva, olio di pesce o grassi della carne, oppure di oli di frittura usati, o peggio oli minerali (vedi articolo precedente). In due prodotti diversi a parità di percentuale di grassi grezzi potrebbe esserci una grande differenza a livello qualitativo e nutrizionale, ecco perché bisogna sempre fare riferimento alla lista degli ingredienti.

Imparare a leggere le etichette: le “Ceneri grezze”

La voce delle ceneri grezze è molto dibattuta, e spesso le persone tendono a giudicare la qualità di un prodotto guardando esclusivamente questa percentuale.

Cominciamo col dire che non sono un ingrediente, e sono un valore presente sia nel cibo umido che in quello secco (mediamente tra il 2% e il 5% nell’umido, e tra il 4% e l’8% nel secco).

Vengono denominate “ceneri” perché sono il risultato di un’analisi (stabilita da un regolamento CE del 2009) che consiste nel portare a temperature molto elevate, ma non oltre i 500° C, il prodotto finito: proteine, grassi, carboidrati bruciano, l’acqua evapora e quello che resta, la cenere appunto, è la parte inorganica, vale a dire i sali minerali, la cui quantità viene espressa in percentuale riferita alla totalità dell’alimento.

Questo valore è particolarmente discusso perché dato che gli scarti di macellazione (ossa, peli, tendini, piume, becchi ecc.) contengono molti sali minerali, una percentuale alta di ceneri grezze fa immediatamente pensare ad un prodotto che contiene molti scarti; tuttavia non è sempre così. Tutto dipende dalla materia prima di partenza.

Per fare un esempio molto pratico se si analizzasse in questo modo un topo, le ceneri grezze che ne risulterebbero ammonterebbero ad una percentuale tra l’8% e il 12%. Una percentuale “alta” secondo le medie a cui normalmente si fa riferimento, ma sfido chiunque a dire che il topo non è un cibo più che appropriato per un gatto!

C’è da aggiungere inoltre che, come accennato già nell’articolo precedente sulla “Composizione“, una presenza importante di legumi contribuisce a far crescere la percentuale di proteine grezze in quanto fonte di azoto e di proteine vegetali (quindi di basso valore biologico) e contemporaneamente, non contenendo sali minerali in quantità pari agli alimenti di origine animale, a mantenere bassa la percentuale delle ceneri grezze.

In questo caso pur essendo bassa questa percentuale non ci si troverà di fronte ad un prodotto appropriato ad un carnivoro.

Talvolta, per finire, ciò che viene bruciato non è solo il puro contenuto organico e cioè di origine naturale, ma anche sostanze chimiche di varia natura, inserite perché necessarie al processo di lavorazione, o parti degli imballaggi (questo accade soprattutto nelle aziende che acquistano gli ingredienti prelavorati da fornitori esterni).

Se ciò che viene bruciato è inquinato da queste sostanze il risultato non sarà più composto da soli sali minerali, ma anche da scorie chimiche per niente benefiche.

Per concludere la percentuale di ceneri grezze non è altro che un numero che riporta la totalità dei sali minerali, ma non dà nessuna indicazione su quali siano questi sali né se siano ben bilanciati.

Non c’è obbligo normativo in questo senso, ma i sali minerali sono fondamentali per la salute di ogni essere vivente, perché precursori dellequilibrio minerale dell’organismo, base di un sistema immunitario forte.

Ancora una volta, per avere un’idea della validità di un prodotto, bisogna analizzare la lista degli ingredienti e, nel caso dei sali minerali, cercare di accertarsi che le modalità di lavorazione siano a basse temperature in modo da permettere il mantenimento dei nutrienti.

Imparare a leggere le etichette: la “Fibra grezza”

Se cani e gatti si nutrissero spontaneamente in natura, cacciando, assumerebbero le fibre attraverso lo stomaco e l’intestino delle prede sfruttando il lavoro di predigestione già svolto dagli enzimi digestivi delle prede stesse.

Pur non essendo assimilabili, assunte nelle giuste quantità sono importanti perché aiutano la funzionalità ed il transito intestinale e svolgono una funzione di prebiotici, cioè di nutrimento per il microbiota intestinale, l’insieme di microrganismi (batteri, virus, funghi, archeobatteri e protozooi) che costituiscono la flora batterica e concentrati soprattutto nell’intestino.

Sono utili in un intestino molto purtefattivo, dal punto di vista della flora batterica, e in uno stomaco dal pH molto acido come quelli dei carnivori.

Anche in questo caso vale sempre la regola di preoccuparsi della qualità e della provenienza delle fibre in questione, l’ideale sarebbe che la fibra fosse inserita nell’alimento non raffinata.

Imparare a leggere le etichette: l’ “Umidità”

Il valore dell’umidità a volte genera confusione, perché viene inteso come un ingrediente, ma non lo è, indica invece l’umidità del complesso degli ingredienti usati.

Per esempio, la percentuale 80% su una scatoletta di umido non vuol dire che l’80% di quella scatoletta è composto da acqua e solo il restante 20% è composto da alimenti nutrienti per l’animale, ma che l’insieme di quegli ingredienti ha un umidità totale pari all’80%.

Le normative stabiliscono dei parametri di riferimento per la misurazione dell’umidità che consentono in base al valore di classificare un prodotto come “secco”, “semi umido” e “umido”; questi parametri sono variabili, ma in generale si può dire che un prodotto secco ha un umidità compresa tra il 6% e l’8%, mentre un prodotto umido del 70%-80%.

Questa percentuale non ci dice nulla sulla qualità del cibo in analisi, ma permette di capire se si è difronte ad un prodotto secco o umido.

Imparare a leggere le etichette: gli Additivi

Nell’etichetta infine ci sono altre voci che non fanno parte dei “Componenti Analitici“, ma sono elencate in una sezione a parte denominata genericamente ”Additivi”, a volte riportati suddivisi in diverse categorie: nutrizionali, tecnologici e organolettici.

Tra gli additivi nutrizionali sono indicati i valori di amminoacidi, minerali, oligoelementi e vitamine con cui si integra l’alimento, di solito artificiali cioè prodotti sinteticamente in laboratorio, a quei cibi che sono formulati partendo da materie prime di scarso valore nutrizionale o che durante a lavorazione vengono sottoposti a temperature molto alte che li impoveriscono di questi importanti nutrienti.

Ci sono però alcuni cibi commerciali in cui questa voce manca, perché le aziende che li producono utilizzano materie prime di alta qualità e lavorano a freddo o a basse temperature. In questo modo mantengono inalterate le proprietà delle proteine, dei sali minerali, degli oligoelementi e delle vitamine, e quindi non hanno la necessità di integrazioni successive.

Quando accade che per il tipo di lavorazione parte dei nutrienti vengono persi, queste aziende inseriscono additivi nutrizionali derivanti da vitamine naturali stabilizzate, quindi di origine organica, naturale e biodisponibile.

Gli additivi tecnologici o zootecnici sono invece utilizzati per facilitare la lavorazione, ma non hanno un particolare valore sul piano nutrizionale della composizione, anche se non sempre sono salutari.

Quelli organolettici infine fanno riferimento ai coloranti o alle sostanze aromatizzanti usate come migliorativi o esaltatori del sapore, di cui un esempio sono gli “appetizzanti” che vengono aggiunti nei cibi che altrimenti non sarebbero sufficientemente interessanti per i nostri cani o gatti, a causa dell’inadeguatezza degli ingredienti o della mancanza di carne reale come ingrediente principale.

Non c’è obbligo di citare nelle etichette gli appetizzanti, ma l’industria che li produce è enorme, ricchissima e costantemente aggiornata sulla chimica dei sapori. È bene orientarsi verso aziende che dichiarano apertamente di non utilizzarli nei loro prodotti.

I coloranti, va da sé, sono usati solo per rendere il prodotto migliore ai nostri occhi, di certo non a quelli dei nostri animali. Quelli di origine naturale sarebbero anche accettabili, ma non vengono usati per via del loro costo che fa preferire quelli di sintesi, e sappiamo bene quanto questi ultimi possano essere dannosi, soprattutto se assunti nel cibo quotidianamente. Meglio evitare i prodotti in cui compaiono.

Anche nel caso degli additivi bisognerebbe evitare tutte le voci troppo generiche, come quelle di “conservanti” o “antiossidanti” che vengono riportate senza specificare di quali tipi di sostanze si tratti.

Tra le voci vaghe da evitare c’è quella degli additivi CEE: questi additivi fanno parte di una lunga lista di sostanze che le normative a livello europeo hanno ritenuto utilizzabili nei cibi per animali domestici, il cui livello di tollerabilità è stato stabilito facendo riferimento però all’uso umano o agli animali da reddito come i bovini o i suini, animali il cui peso è 3, 4, 5 volte superiore a quello di un cane o di un gatto!

Per concludere

Appare chiaro, dopo quanto detto, che in un’etichetta la lista dei “Componenti analitici” può essere d’aiuto nella valutazione di un prodotto solamente se viene letta in relazione con quella della “Composizione“, perché con la chimica è possibile arrivare ad ottenere i valori che si vogliono, e questi valori nulla ci dicono sulla qualità delle materie prime.

Trovare un cibo commerciale che sia composto da ingredienti di alta qualità, che non contenga additivi sintetici, che sia prodotto a basse temperature nell’intento di mantenere intatti i nutrienti non è semplice, ma nemmeno impossibile.

Certo provenienza delle materie prime e modalità di lavorazione non sono informazioni che possono essere estrapolate da un’etichetta, ma le aziende che lavorano in modo virtuoso ci tengono a valorizzare questo aspetto, che costituisce la loro forza. Facendo qualche ricerca in Internet è possibile trovare piccole aziende che non investono in pubblicità, ma sull’alta qualità dei loro prodotti: nei loro siti questo genere di informazioni sono evidenti.

Proprio cercando in rete un modo per imparare a leggere le etichette, così da poter valutare un’alternativa commerciale all’alimentazione casalinga per Kiba (che avrei voluto seguire, ma non potevo gestire), mi sono imbattuta in un seminario sull’argomento. Partecipare a quel seminario è stato il primo passo per cercare, e infine trovare, un’alternativa commerciale validissima, sana ed etica.

Se vuoi avere sempre a portata di mano una sintesi di quello che bisogna sapere per analizzare un’etichetta puoi scaricare gratuitamente la “Guida rapida alla lettura dell’etichetta” cliccando sul pulsante qui sotto

In alternativa, se vuoi un’analisi più approfondita dell’etichetta del cibo che stai attualmente usando, puoi richiedermi una consulenza, gratuita e non impegnativa, riempendo il modulo nella pagina dedicata alla “Consulenza alimentare“, o scrivendomi all’indirizzo info@secondonaturapetfood.it.

Sarò felice di aiutarti.

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Valeria De Riso

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